
Quel giorno aveva la partita più importante del torneo, a scuola. Era eccitatissimo. Semifinale strappata coi denti ai ciuccioni della III B. Era forte a pallone, ma gli piaceva assai soprattutto fare l’allenatore. Lo chiamavano “il coach”.
Il suo modulo infallibile lo aveva portato a schierare, per l’occasione, quattro pietre miliari: Alessio Papagni, altissimo, detto “‘u loung”, Fabio Dell’Olio, imprendibile, detto “fusc’ fusc'”, Gabriele Bruno, Gheghè, lo straniero di Triggiano e Saverio Ventura, per tutti “ciola 1” (i motivi erano evidenti). Era stato tutta la notte a pensare come spostare, sostituire. Di solito faceva le formazioni coi pupazzetti del subbuteo e, di finire i compiti, manco per idea.
Fu un successo. Partita vinta, coppa sollevata come alla Champions League, nel cortile, di fronte a preside e professori e strada spianata per l’estate a venire. A Bisceglie, ormai, non si parlava che di lui e le ragazzine gli facevano gli occhi dolci per strada.
A distanza di pochi giorni, un amico dei suoi si presentò a casa, portandogli una serie di musicassette: «ne’, auand, uallio’! devo traslocare e queste te le regalo. So che ti piace la musica».
Non credeva ai suoi occhi. Due valigie piene di note a portata di mano. Gratis. Riempì subito la stanza, le mise ovunque, anche sotto il letto. C’era ogni ben di dio, ma soprattutto il jazz. Ascoltava, ritagliandosi il tempo residuo tra il pallone e una capatina a mare, non pensando ad altro. Men che meno a quello che avrebbe poi fatto dopo le medie. A tredici anni, si può.
Il passo verso i CD fu immediato. Diventato più grandicello, costrinse i suoi a regalargli un impianto Hi-Fi con cui iniziò a consumare di tutto, ad accumulare, a studiarsi le note di copertina [...]